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In quella sezione del nostro Manifesto dedicata all'applicazione della teoria
al modello mantovano notavamo, tra l'altro, l'esigenza di superare quella logica delle relazioni istituzionali, fondata sul premio e sul castigo, che
impedisce alla nostra società di aprirsi all'innovazione culturale e scientifica. Società dove i soggetti che la compongono sono considerati, da una
parte, erogatori e, dall'altra, consumatori di beni e servizi. Anzi devono esserlo per principio elettivo. E per consenso corporativo. E questa
mitologia è ancora in auge perché tra pragmatismo, edonismo ed economicismo la concezione del bisogno si fonda sul presupposto che la felicità,
ancora oggi, procede dal merito. E dal debito incondizionato nei confronti dell'autorità.
Una società siffatta, per sopravvivere, si deve basare, quindi, su tutti quei rituali che hanno lo scopo di mostrare la sottomissione, di organizzare
le dipendenze e di dirigere il ritmo sacrificale che deve fabbricare i sudditi che, così, finiscono per formare la base del consenso corporativo. E
lobbistico. Com'è fin troppo chiaro le istituzioni della nostra società sono strutturate da norme che servono principalmente a rappresentare un corpo
giuridico che ha una funzione punitiva, quindi repressiva, non finalizzata, cioè, alla felicità dell'individuo. Se, invece, l'istituzione si propone
come struttura aperta, solidale e cooperativa ha la chance di ritrovare nel diritto, e in un modo nuovo di applicare le norme, una nuova istanza di
rinnovamento sociale. A questo punto la domanda che occorre porci, allora, è questa: perché questo dispositivo di cooperazione stenta a decollare? La
risposta a questa domanda si può trovare nella dura legge del business che preso tra il pubblico e il privato assume aspetti diversi ma è connotato
da una caratteristica comune: l'assoluta indifferenza nei confronti della felicità dell'individuo. Anzi il castigo per chi prova ad occuparsene.
Infatti nell'istituzione pubblica ogni iniziativa deve essere giustificata dal bisogno di ottemperare ad una norma precisa, pena l'accusa di
interesse privato in atto pubblico, mentre nel mondo dell'impresa privata l'attenzione alla felicità dell'individuo viene vissuta come "spreco" di un
possibile profitto. Ecco perché è difficile occuparsi della felicità delle persone. In questo contesto si situa l'intervento dell'ingegner Luciano
Murelli che auspica, tra l'altro, l'elaborazione di un dispositivo capace di offrire alle istituzioni un nuovo modello intellettuale di
organizzazione del lavoro. Un modello che permetta, appunto, di applicare le norme con onestà intellettuale, senza più paura del castigo. Solo così,
infatti, l'istituzione può trovare l'occasione di divenire epifania del diritto nella società: epifania che proprio il diritto legittima offrendo le
chiavi per interpretarne e per orientarne la funzione. E la missione nuova rivolta alla felicità dell'individuo. Ma adesso lasciamo la parola
all'ingegner Luciano Murelli.
"Dopo essermi laureato al Politecnico di Milano in ingegneria civile edile e dopo varie esperienze di lavoro nell'ambito dell'edilizia civile, nel
1996 inizio a lavorare nella sanità e dal 1998 presso l'Azienda Ospedaliera di Mantova. In questa istituzione pubblica, nella funzione di
Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, mi occupo della sicurezza degli ambienti di lavoro e della salute dei lavoratori. Il mio
lavoro si integra con i medici competenti per l'individuazione dei pericoli e dei rischi connessi con l'utilizzo degli ambienti di lavoro, l'uso
delle attrezzature e delle sostanze maneggiate dai lavoratori. Tutto questo per identificare le misure di prevenzione e protezione necessarie alla
tutela dei lavoratori stessi, in ottemperanza alla normativa in materia introdotta nel 1994 con il decreto legislativo 626. Un decreto che ha portato
una serie di novità per quanto riguarda l'attuazione della sicurezza cosiddetta soggettiva sul lavoro che prevede l'elaborazione di un nuovo sistema
gestionale alla cui base occorre sensibilità, linguaggio comune, interpretazione univoca per garantire il benessere psicofisico di ciascun lavoratore
e per ridurre, e se possibile azzerare, gli infortuni. Naturalmente è subito risultato chiaro che un linguaggio comune è più facile da instaurare in
aziende semplici e meno facile in aziende strutturalmente complesse, perché coinvolge molte funzioni e ruoli con finalità diverse.
E' dunque sulla capacità di integrazione ed elaborazione del processo gestionale ovvero del linguaggio comune tra dirigenti e maestranze che, a mio
avviso, si giocherà il futuro di un'azienda strutturalmente complessa come quella ospedaliera, ad esempio. Occorre, allora, investire e dedicare
sempre costanti risorse finanziarie per la sicurezza e per la formazione, perché questo significa garantire anche l'integrazione con la qualità e là
dove c'è qualità e un ambiente sicuro, accogliente e sereno c'è anche soddisfazione e felicità. In questo contesto il linguaggio comune deve
diventare, così, il dispositivo culturale ed educativo in cui tutti gli attori cooperano alla realizzazione dei processi produttivi aziendali nel
rispetto dell'utenza e della singola persona. Per avviare questo dispositivo il primo problema da affrontare è quello connesso alla sensibilizzazione
e formazione della dirigenza affinché l'applicazione delle norme venga massimizzata non soltanto con la comprensione dei principi che le hanno
ispirate, ma con l'instaurazione di un sistema di gestione e governo solidale, finalizzato a soddisfare la qualità del lavoro in cui gli utenti
interni sono i lavoratori. Un dispositivo siffatto io me lo immagino regolato da tre funzioni e da una congettura. La prima funzione è relativa alla
competenza che, in breve, è la capacità culturale di saper valutare e valorizzare le persone e le cose. La seconda funzione è connessa al
controllo delle procedure che significa cultura dell'eliminazione dell'errore. La terza funzione dipende dall'ambiente, dal luogo e dal
tempo in cui si vive. La congettura, invece, riguarda il capitale intellettuale dell'azienda, ovvero la dirigenza, che ha la responsabilità di
integrare e valorizzare queste tre funzioni con lo scopo dichiarato di rendere felici le persone.
Il mio sogno è, quindi, connesso all'instaurazione di un sistema economico dove le norme facilitino e garantiscano l'avvio di un dispositivo di
governo delle cose finalizzato alla solidarietà e alla cooperazione. Ma affinché questo dispositivo avvenga occorre introdurre, anzitutto, un nuovo
modello di gestione fondato sulla formazione culturale e spirituale dei dirigenti. Solo così una nuova etica del lavoro, finalizzata alla felicità
dell'uomo e avallata dallo Stato e dagli imprenditori, potrà diventare il capitale intellettuale della nostra collettività.
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