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Il modello economico dei paesi occidentali ha iniziato a mostrare i propri limiti alla fine del XX
secolo, nel momento in cui l'uscita di scena del comunismo dal teatro mondiale coincideva con il massimo fulgore del capitalismo.
Molti sono concordi
nel ritenere che nel XXI secolo è necessario porre rimedio agli squilibri che il modello capitalista ha inevitabilmente portato con sé insieme al
benessere.
D'altra parte Internet ha imposto una visione
economica e culturale del mondo che non ha precedenti nella storia dell'umanità
e i modelli economici conosciuti sembrano incapaci di accompagnare la crescita
nel rispetto dell'uomo e della natura in cui
vive.
Per gestire il cambiamento imposto dallo sviluppo tecnologico e
dalla globalizzazione si propone un nuovo modello di economia, di gestione e di vita chiamato
Botteg@: il
capitalismo umano con una nuova etica del profitto, non frutto della speculazione contrattuale, ma generato dalla felicità dell’uomo, vero e proprio
capitale intellettuale dell’impresa e della società.
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Il modello di
gestione della Botteg@ |
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Cosa comporta per un'impresa trasformare le relazioni sociali basate sul principio del potere contrattuale in quelle fondate sulla cooperazione?
Anzitutto che l'imprenditore inizi a considerare il capitale e il profitto non più come fine di arricchimento personale ma come mezzo per rendere
felici le persone, tra le quali la prima è lui stesso.
Allora si capisce che il capitale non è un potere, ma una risorsa, e non ha più potere chi più
ne detiene, ma solo più responsabilità nell'impiego di un talento intellettuale da gestire con saggezza nelle relazioni sociali. La capacità di saper
donare con amore questo talento comporta la felicità di tutte le persone che partecipano alla riuscita dell'impresa.
Ebbene, se la gestione
dell'impresa viene fatta così, ogni collaboratore ha la chance di divenire imprenditore di se stesso in quanto stimolato a massimizzare le proprie
aspirazioni e quindi a sviluppare un'impresa di felicità. In altri termini: l'imprenditore deve saper divenire quell'intellettuale in grado di
richiedere ai suoi manager non il profitto, ma la felicità di tutte le persone che lavorano nell'impresa.
Questa felicità si concretizza grazie ad un
modello di gestione che prevede il tutor, la cui responsabilità è quella di insegnare all'individuo a valorizzare la cultura del dono e a non
sprecarla.
Fin da quando veniamo alla luce, alla base della nostra formazione c'è la famiglia e i genitori sono i nostri primi tutor.
Successivamente, durante la formazione scolastica e universitaria, abbiamo altri tutor, maestri e professori che ci trasmettono le informazioni
necessarie per relazionarci positivamente con la società in cui viviamo.
Da zero fino al compimento degli studi, quindi, l'individuo impara a
decodificare i propri bisogni e a comprendere le esperienze sociali grazie ai suoi tutor che fungono da punti di riferimento per affrontare il
proprio percorso umano e professionale.
La domanda che occorre porsi allora è questa: perché anche nel mondo del lavoro non è previsto un tutor che, con il suo servizio intellettuale, guidi
e indirizzi l'individuo verso un percorso di realizzazione professionale e umana, base della felicità nella vita?
Sarebbe questa la condizione
sufficiente per sentirci amati nell'impresa e nella società come lo siamo nella famiglia e nella scuola? Tutto questo potrebbe essere un sogno
realizzabile se avessimo il coraggio di pensare che l'azienda è al servizio dell'uomo e non viceversa.
Se il capoufficio o il manager, invece del
budget, avessero come obiettivo di tutor la massimizzazione del capitale intellettuale dell'impresa, si attiverebbe un effetto a catena talmente
efficace da produrre maggior reddito come conseguenza dello stato di maggior felicità di tutti i collaboratori.
Ma quali sono gli strumenti adatti
per raggiungere la felicità in un ambiente di lavoro?
Innanzitutto il tutor dovrebbe instaurare con ciascun collaboratore un percorso formativo,
dunque evolutivo, assolutamente personale. Egli, in definitiva, dovrebbe aiutare a fare le scelte migliori utilizzando l'azienda come se fosse a
disposizione del collaboratore, e non viceversa.
Se le imprese e le istituzioni realizzassero questa vera rivoluzione copernicana succederebbe una
cosa meravigliosa: i loro collaboratori si troverebbero ad interloquire con dei tutor e non con dei competitor e diverrebbero efficientissimi perché
non si sentirebbero sfruttati, non si sentirebbero un mezzo, ma i principali beneficiari del capitale culturale dell'impresa.
Per fare questo occorre
che i manager e gli imprenditori sappiano rinunciare alla loro vecchia concezione del potere e diventare loro stessi tutor. Non ci sarebbe neanche
bisogno di cambiare la struttura organizzativa dell'impresa, basterebbe cambiarne le finalità con un nuovo spirito di gestione che anteponesse la
felicità dell'uomo alla fredda sequenza di numeri/profitti/denari.
Così potremmo realizzare meglio i sogni della nostra vita, quelli nati tra le mura
domestiche e sviluppati sui banchi di scuola. Ci sarebbe sicuramente maggior felicità, più rispetto, più onestà intellettuale e più
ricchezza.
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