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Il comitato di redazione de "La Cronaca di Mantova", fin dal debutto di questo
giornale, non si atteneva alla logica mediatica asservita all'ideologia politica e al potere economico, ma voleva favorire l'interscambio di idee tra
la politica, l'arte, la cultura e l'industria, ponendo come condizione che ciascuna cosa potesse trovare accoglimento in una struttura
contraddistinta dalla libertà e dall'indipendenza. Questo comitato di redazione, inoltre, non dava nulla per scontato né, tantomeno, accettava che la
parola e la scrittura si potessero ridurre al pettegolezzo e alla chiacchiera, ma credeva e crede in una materia della notizia, della novella e
dell'annuncio caratterizzata dal fare e dalla qualità della vita, intellettuale e spirituale, della nostra collettività. La missione de "La Cronaca
di Mantova" era, quindi, quella di dare un'informazione che fosse anche formativa e che avviasse una riflessione sull'avvenire della città e della
sua provincia, a partire dalla rete di notizie economiche, finanziarie, commerciali, culturali, artistiche e imprenditoriali che, man mano,
affluivano in redazione. Ma "La Cronaca di Mantova" è stata anche l'occasione di fondare l'Assemblea civica mantovana. Un dispositivo intellettuale
di governo delle cose assolutamente inedito, perché non discendeva dalla partitocrazia mantovana, ma proponeva una pratica politica attinente
all'arte del fare e alla scrittura dell'esperienza, ma anche al dibattito. Un dibattito che ha sempre cercato di analizzare tutte quelle fantasie di
padronanza che hanno costituito la deformazione dell'idea di buon governo e la deviazione verso forme di potere autoritarie e irrispettose del bene
comune.
Ma è con l'inaugurazione della rubrica "La stanza dei sogni" e con la redazione del Manifesto del nuovo rinascimento mantovano che il dibattito viene
spostato sull'industria del fare, base e condizione del rinnovamento dell'arte e della cultura, della tecnica e della macchina, del gioco e
dell'invenzione. Con il Manifesto del nuovo rinascimento mantovano, si annuncia anche la fondazione di una cultura industriale che ritrova la sua
condizione di eccellenza nella bottega rinascimentale del '500 (quella del Verrocchio, per esempio) e la sua formalizzazione attuale nella bottega
telematica del terzo millennio. Il Manifesto, inoltre, insiste molto sulla figura del maestro di bottega come tutor che, emulo del tempo, si trova a
gestire un itinerario intellettuale e scientifico che porta ciascun collaboratore della bottega a divenire felice uomo del fare, capitale
intellettuale, principe industriale, cifra di vita e di qualità. Ed è proprio a partire dall'elaborazione teorica della figura del tutor che si è
aperta l'assemblea del 3 ottobre 2004 e di cui, oggi, qui di seguito, diamo testimonianza scritta.
I lavori sono iniziati mettendo a confronto il computer con il cervello umano. A differenza di Lombroso che con la sua teoria ha gettato le basi da
cui si è sviluppata tutta l'ideologia del ventesimo secolo sia di destra che di sinistra, questa analogia tra il cervello e la macchina non è stata
l'occasione per stabilire un processo di identità tra la facoltà umana di pensare e la facoltà del computer di elaborare, ma è servita per proporre
l'indagine intorno all'intelligenza artificiale e, quindi, ad introdurre la questione della differenza tra la bioenergia e l'informatica. Una cosa,
allora, è subito risultata evidente: l'intelligenza artificiale ha posto fine alla fisiologia ed ha fatto emergere la questione della neurologia
presa tra il mito e la scienza, tra l'intelletto e l'arte del fare (l'intelligenza artificiale, appunto), base e condizione dell'industriosità umana.
E questo per dire che l'intelligenza artificiale con le sue funzioni, le operazioni, la simultaneità e le correlazioni riporta alla logica della
parola. In altri termini: parlando di come funziona il computer, simultaneamente, si può parlare di come funziona la logica del cervello connessa al
fare, all'industria e al nostro tempo.
E così, come nel computer la risorsa base è l'informatica, nelle persone è la bioenergia. Insomma, se ciò che fa funzionare il computer è il sistema
operativo che consente di utilizzare programmi specifici, nell'uomo esistono i sistemi sociali che permettono di realizzare i propri progetti di
natura. Ma come si posiziona, in un contesto cibernetico, il maestro di bottega, il tutor? Durante il dibattito è emerso che, egli, come elemento
cruciale del sistema organizzativo umano, ha il compito di proporre la questione dell'educazione, intesa come formazione e insegnamento reciproco.
Questo dispositivo culturale, oggi, risulta strategico, perché quando l'uomo non riesce a connettere la sua intelligenza con il fare trasforma i
propri errori tecnici in sintomi che, se non elaborati, divengono disagio e malattia. Affinché il sintomo risulti, invece, occasione di riflessione
occorre un maestro, un tutor, che attraverso il ragionamento porti l'individuo a connettere l'intelligenza con l'arte del fare e, quindi, ad attuare
il proprio progetto di natura. E il proprio programma di autenticazione. In altri termini: il tutor come intermediario culturale aiuta l'individuo a
compiere delle scelte aperte e libere da tutti quei condizionamenti sociali e quelle convenzioni culturali che gli impediscono di realizzare il
proprio progetto di natura. Infatti scegliere, molte volte, è difficile perché con la scelta si pone anche l'etica e, quindi, la logica delle
relazioni o logica dell'apertura intellettuale tra due cose (il bene e il male, ad esempio) che, comunque, paradossalmente, continuano ad esistere
differenti tra loro e in relazione tra loro, in ciascuno di noi. In una civiltà complessa come l'attuale il tutor deve, allora, saper cogliere il
proprio progetto di natura e quello dei suoi interlocutori. Lo scopo dichiarato è quello di analizzare l'infinito e contraddittorio palinsesto
culturale che ci circonda per saper adattare il proprio programma di autenticazione alla nostra missione originaria. Ebbene, se in principio i
genitori e gli insegnanti sono stati i tutor che l'individuo ha incontrato lungo la prima articolazione del suo percorso di autenticazione, oggi
occorre che questo avvenga anche nel mondo del lavoro. Affinché tutto ciò avvenga occorre, anzitutto, instaurare la cultura del dono: il modo stesso
di quell'apertura intellettuale che procede dall'amore e che produce effetti di verità e di riso, le due facce della felicità. E se questo ancora
oggi non è avvenuto è perché l'organizzazione del lavoro si fonda ancora sullo sfruttamento delle risorse umane e sull'idea che le cose si possano
possedere, padroneggiare e controllare. Come risolvere allora il problema del lavoro tenendo presente l'assunto in cui prevale la cultura del dono?
Se il dono è il modo stesso di quell'apertura mentale che porta alla felicità, durante il dibattito è stato introdotto anche il concetto di regalo:
un modo di affermare come nella logica delle relazioni si possa produrre qualcosa di superfluo da regalare; uno scandalo per i cultori
dell'efficienza e una provocazione per i sostenitori del profitto. In questo contesto il tutor, oltre ad avere il compito di educare e di divulgare
la nuova cultura della bottega industriale, deve avere la capacità di mettere a disposizione il proprio capitale intellettuale in modo disinteressato
al fine di facilitare il percorso di autenticazione dei suoi interlocutori al pari del proprio. La capacità di saper regalare agli altri ciò che è
consapevolmente considerato superfluo alla realizzazione del proprio progetto di natura, e quindi al buon funzionamento della propria impresa umana e
professionale, si chiama appagamento. E nell'accezione che è emersa durante il dibattito, l'economia dell'appagamento segue la solidarietà
come dispositivo di accoglienza e il patto di lealtà come dispositivo della riuscita. Ma questa è già materia di un prossimo dibattito al quale siete
tutti invitati.
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