La Stanza dei Sogni

  Il Manifesto
  Maestro di Botteg@
  Stanza dei Sogni

 

a cura di Giacomo Bucci ed Enrico Ratti
articolo pubblicato in prima pagina sulla Cronaca di Mantova il 23 luglio 2004

Il capitalismo umano
  Dopo gli articoli intorno all'individuo e alla famiglia, oggi parliamo dell'impresa. Attualmente ci sono tre modi per definire quella che nel Rinascimento, soprattutto con Leonardo Da Vinci, è stata chiamata bottega: l'impresa, l'industria e l'azienda. Nel Rinascimento la bottega venne chiamata anche casa di produzione perché era il dispositivo artistico e culturale, ma anche economico e finanziario, della città. E la bottega, la casa e la città si basavano sulla fusione tra il manuale e l’intellettuale, ovvero sul superamento di quella millenaria divisione che da Platone in poi separava le arti meccaniche da quelle liberali. Di conseguenza la bottega, la casa e la città poggiavano sul tempo, sulla cultura e sul fare: tre istanze intellettuali che fino a pochi anni fa, nell'Italia serva dell'ideologia illuministico-romantica, sono state sconfessate per giustificare la supremazia del capitale sulle relazioni sociali, attraverso la gestione sapiente del potere finalizzata allo sfruttamento delle risorse. E, com'è noto, se si basano i rapporti sociali e industriali sul principio del potere contrattuale il conflitto è continuo in una società come la nostra dove il profitto è visto come premio per lo sfruttamento delle risorse: finanziarie, tecnologiche ma, purtroppo, anche umane.
In questo contesto assolutamente antirinascimentale noi, oggi, avanziamo l'idea che un'impresa, non più basata sul potere contrattuale, ma sulla solidarietà umana, sia un'impresa più profittevole se fondata sull’onestà intellettuale come dispositivo di accoglimento, e sul dono come dispositivo di riuscita. Per fare questo occorre molta fiducia nel bene e nel nostro prossimo, base e condizione di quel dono d'amore, di quel dare, capace di rendere felice l'uomo. Purtroppo il dono d'amore, soprattutto in un'economia egemonizzata dal consumismo, è una potenza che ancora non viene apprezzata perché apparentemente non rappresentabile in un oggetto utile e, soprattutto, non valutata sulla base del potere contrattuale, ma sulla fede nella riuscita. E invece, quasi paradossalmente, il successo dell’impresa innovativa che stiamo rappresentando passa proprio attraverso la felicità dell’individuo realizzata all’interno del gruppo di lavoro, il cui modello di gestione poggia sul dono e non sul profitto. E questo lo diciamo perché una cosa donata con amore non contempla la perdita, ma il guadagno: con il dono, infatti, si instaura un patto fondato sulla valorizzazione del dono stesso, sia da parte di chi lo fa che di chi lo riceve. Invece il sistema attuale si basa sull'idea che ci si deve difendere dal potere contrattuale altrui: quello del Capo contro il sottoposto e quello del sottoposto contro il Capo, dove il più forte non sempre è il Capo. Tutti allora sfruttano tutti, per un presunto senso di difesa, in quanto si ritiene che ognuno adotti sistematicamente le tutele e le astuzie a sua disposizione per sfuggire o contrastare l’altro. Il circolo vizioso instaura, così, una pericolosa escalation che focalizza l’interesse dei contendenti più sulla valorizzazione del proprio potere contrattuale che sull’efficienza della produttività aziendale. Si capisce che in queste condizioni il costo aziendale, ma anche sociale, del controllo esercitato sull’efficienza del gruppo di lavoro è enorme. Ed è enorme anche lo spreco. Nel dispositivo di accoglimento e di riuscita che andiamo elaborando, invece, una volta instaurata l'onestà intellettuale, si sviluppa automaticamente la fiducia come risultato della cooperazione e, quindi, il profitto si determina, quasi naturalmente, come risultato del mancato impiego di risorse nel controllare l’efficienza del gruppo.
Ma cosa comporta per un'impresa trasformare le relazioni sociali basate sul principio del potere contrattuale in quelle fondate sulla cooperazione? Anzitutto che l'imprenditore inizi a considerare il capitale e il profitto non più come fine di arricchimento personale ma come mezzo per rendere felici le persone, tra le quali la prima è lui stesso. Allora si capisce che il capitale non è un potere, ma una risorsa, e non ha più potere chi più ne detiene, ma solo più responsabilità nell’impiego di un talento intellettuale da gestire con saggezza nelle relazioni sociali. La capacità di saper donare con amore questo talento comporta la felicità di tutte le persone che partecipano alla riuscita dell'impresa. Ebbene, se la gestione dell'impresa viene fatta così, ogni collaboratore ha la chance di divenire imprenditore di se stesso in quanto stimolato a massimizzare le proprie aspirazioni e quindi a sviluppare un'impresa di felicità. In altri termini: l'imprenditore deve saper divenire quell'intellettuale in grado di richiedere ai suoi manager non il profitto, ma la felicità di tutte le persone che lavorano nell'impresa. Questa felicità si concretizza grazie ad un modello di gestione che prevede il tutor, la cui responsabilità è quella di insegnare all'individuo a valorizzare la cultura del dono e a non sprecarla. Qui risiede anche il concetto di bottega e grappolo di botteghe per l’ottimizzazione delle risorse e, oggi, la risorsa fondamentale di un'impresa sta nel saper dirigere un'equipe composta da persone che, ciascuna a suo modo, sappiano esprimere la propria eccellenza professionale ed umana, in un contesto di felicità di gruppo. In estrema sintesi: se l'imprenditore non si preoccupa di raggiungere il profitto, ma si prende cura della felicità dei suoi collaboratori egli persegue un bilancio umano e societario che solo apparentemente, e nel breve periodo, può risultare penalizzante, in realtà risulterà vincente in quanto ottenuto con un processo lavorativo fatto con amore individuale. A nostro avviso questo è un investimento inaudito, perché l'attenzione che si dedica alla felicità dell'uomo è il miglior patrimonio dell'impresa che, oltre ad avere la responsabilità di saper valorizzare la propria missione, deve imparare a divenire capitale intellettuale e indice della prosperità sociale.
Il nostro sogno è un modello di economia, di gestione e di vita che chiamiamo Umanismo: il capitalismo umano con una nuova etica del profitto, non frutto della speculazione contrattuale, ma generato dalla felicità dell’uomo, vero e proprio capitale intellettuale dell’impresa e della società. Solo così si giustifica il profitto come risorsa indispensabile per il rinnovamento della stessa felicità dell’individuo. Se le imprese e le istituzioni realizzassero questa vera rivoluzione copernicana succederebbe una cosa meravigliosa: i loro collaboratori diverrebbero efficientissimi perché non si sentirebbero sfruttati, non si sentirebbero un mezzo, ma i principali beneficiari del capitale culturale dell’impresa. Così tutti potrebbero realizzare i propri sogni personali, familiari e professionali. Ci sarebbe sicuramente maggior felicità, più rispetto, più onestà intellettuale e più ricchezza.