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a cura di Giacomo Bucci ed Enrico Ratti articolo pubblicato in prima pagina sulla Cronaca di Mantova il 25 giugno 2004
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La capacità di donare |
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Dopo l’avvio di un forum permanente intorno allo studio delle scienze umane, oggi abbiamo il piacere di
pubblicare l’intervento della dottoressa Anna Ruggerini a cui, tra breve, l’ordine dei medici assegnerà la medaglia d’oro per il 50° della sua
laurea.
Anna Ruggerini è nata a Mantova nel 1927 e, dopo aver conseguito gli studi classici, si laurea in medicina e chirurgia a Bologna nel 1954.
Successivamente si specializza in pediatria e puericultura. Dal 1958 al 1960 lavora come medico presso l’ospedale di Nkubu nel Meru (Kenia), ed è
proprio a partire da questa missione di vita che inizia il racconto storico di una donna coraggiosa che, emula del tempo, instancabilmente, giorno
dopo giorno, ha dedicato la sua esistenza alla cura degli infermi e alla crescita e al recupero di tantissimi bambini mantovani vittime di famiglie
disastrate.
“Nel 1958, un anno dopo essere stata assunta all’istituto Soncini, il Brefotrofio di Mantova dove erano accolti, allevati e accuditi i figli di
famiglie disagiate o di genitori detenuti in carcere o in manicomio, decido di andare in Africa. Per un anno e mezzo lavoro nel reparto di radiologia
dell’ospedale di Nkubu, a 100 chilometri da Nairobi. Quando non facevo i raggi, senza tanto curarmi del caldo torrido e degli orari di lavoro, andavo
a visitare i lebbrosi. E così, per farmi intendere, ho dovuto imparare tantissimi idiomi tra cui il kemeru, un dialetto locale che mi permetteva di
somministrare le cure e le medicine più adeguate ai miei pazienti. C’è da dire che alla fine degli anni ’50, quelle popolazioni erano molto arretrate
tanto che non conoscevano neppure l’inumazione. Ma nemmeno l’igiene. Poi, dopo essere stata colpita da un’ulcera, per curarmi, sono stata costretta a
fare ritorno a Mantova. Qui ho ripreso il mio lavoro al Soncini dove, nel 1968, sono diventata direttrice. Oltre a dirigere il Brefotrofio avevo
aperto anche un ambulatorio di pediatria e, nel 1992, quando ho finito la mia carriera di medico, avevo in cura 350 bambini.
In quei tempi svolgevo la professione con impegno e abnegazione tanto che sono arrivata a fare 21 chiamate domiciliari in un solo giorno. Oggi,
invece, le visite a domicilio sono rare e i medici si affidano, quasi esclusivamente, al consiglio telefonico senza muoversi dall’ambulatorio.
Insomma, la parte umana della missione del medico è del tutto tramontata a tutto vantaggio di un sistema sanitario diventato troppo tecnologico: ma,
forse, questo non basta al malato che, anzitutto, ha bisogno di tantissimo amore. Con questo non nego che la tecnica aiuti l’uomo, ma se oggi un
individuo si ammala il medico non si mette nei suoi panni ed è raro che spenda per il suo paziente una parola d’amore. E’ per questo che noi, oggi,
siamo più esposti alla precarietà che alla solidarietà. Una volta, invece, i medici erano capaci di donare amore; amore che per me è nato e cresciuto
durante gli studi universitari, per poi sfociare in un aspetto teologico della professione. Io, infatti, fin dal principio ho sempre considerato il
malato più di un malato: in lui vedevo la sofferenza di Cristo, ma anche e soprattutto un individuo che aveva un avvenire di guarigione e di salvezza
dall’infermità. Forte di questa consapevolezza, dopo aver ricevuto il Crocifisso a Padova dal vescovo Bordignon, sono partita per la missione
cattolica di Nkubu in Kenia, perché a Mantova non davo tutta me stessa per aiutare gli altri. Poi, quando sono tornata in Italia, il troppo benessere
in rapporto alla situazione africana mi ha portato alla depressione. In quei momenti emotivamente difficili ho capito, però, che a Dio non importa la
geografia perché anche qui, tra i miei concittadini, c’è una missione da compiere.
Come dicevo nel 1963 ho avuto un tracollo emotivo ma, un amico, mi ha suggerito di dedicarmi alla pittura. Allora sono andata da Zuccoli, ho
comperato pennelli e colori e ho cominciato a dipingere. E a scrivere poesie che ho pubblicato nel 1982, nel 1986 e nel 2002. Dopo questi
avvenimenti, oggi, posso dire che la pittura e la poesia mi hanno riconciliato con la vita, perché anche questi sono doni creati in funzione degli
altri.
Il mio sogno adesso è incontrare Dio, perché lui mi ha scelto per amore e alla fine della vita mi dà quell’amore che è Lui stesso. Ma questa per me è
una realtà più che un sogno. Il sogno vero è che Mantova oggi ambisca a conquistare la pace e la solidarietà, perché se nella nostra collettività ci
fosse meno egoismo saremmo tutti più felici. Invece nella nostra città, oggi, a prevalere è l’indifferenza in materia di umanità e, sembra, che qui
nessuno sia più disposto ad abbandonare se stesso per donarsi totalmente agli altri. E questo avviene perfino nelle famiglie, dove indifferenza ed
egoismo trionfano sovrani. Questo stato di cose è potuto succedere perché a Mantova, da troppo tempo ormai, manca quello spirito corale che significa
essere felici insieme agli altri ma anche uscire da se stessi per donarsi o per aiutare il prossimo. Insomma se ci fosse il coro più nessuno
penserebbe per sé, perché tutti canterebbero una stessa canzone fatta di attività, di solidarietà, del rispetto del diritto dell’altro e del
riconoscimento della leadership. A mio avviso questa è la vera libertà, perché è la condizione che ci differenzia da un gregge costretto a cibarsi
solo per far sopravvivere i propri istinti. |
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