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a cura di Giacomo Bucci ed Enrico Ratti articolo pubblicato in prima pagina sulla Cronaca di Mantova il 19 marzo 2004
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Il Tutor |
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In apertura di questa nuova rubrica accennavamo ad un nuovo modello di vita, quindi di riuscita,
strutturato da tre principi: l'onestà intellettuale, il rispetto dell'altro e delle cose e il miglioramento umano e sociale della nostra
collettività. Tre principi che sono base e condizione di quella felicità che, secondo noi, è il piacere di vedere realizzati i nostri sogni, ma anche
il compimento di un itinerario di qualità. Ebbene in questo nuovo intervento, per cercare di dare una prima sintetica definizione di "felicità
realizzata", prenderemo in esame il concetto di tutor.
Fin da quando veniamo alla luce, alla base della nostra formazione c'è la famiglia e i genitori sono i nostri primi tutor. Successivamente, durante
la formazione scolastica e universitaria, abbiamo altri tutor, maestri e professori che ci trasmettono le informazioni necessarie per relazionarci
positivamente con la società in cui viviamo. Da zero fino al compimento degli studi, quindi, l'individuo impara a decodificare i propri bisogni e a
comprendere le esperienze sociali grazie ai suoi tutor che fungono da punti di riferimento per affrontare il proprio percorso umano e
professionale.
Nel mondo del lavoro, invece, questo dispositivo di orientamento cambia radicalmente. Il giovane che affronta il primo lavoro ha quasi l'impressione
di essere rifiutato dal sistema. Non trova più un tutor che lo assista nelle scelte ma, al contrario, un ambiente ostile e selettivo che privilegia
la scaltrezza e l'egoismo. In seguito poi l'individuo si trova a combattere contro gerarchie sociali dove le persone sono in perenne competizione tra
loro per migliorare il proprio status economico e sociale, incuranti del prossimo. Anzi, il modello sociale sembra premiare proprio chi riesce a
gestire abilmente lo "sfruttamento" delle risorse altrui. Quando emerge con maggior forza la discrepanza tra i buoni principi che si sono imparati a
scuola e la cruda realtà, sopraggiunge, allora, una cocente delusione da cui deriva, purtroppo, il risultato più ovvio: l'azienda è un ambiente senza
amore.
Il modello capitalistico, quello che dà il potere agli azionisti e vede l'uomo come un consumatore, concepisce come mezzo dell'attività produttiva lo
sfruttamento delle risorse umane alla pari del capitale e della tecnologia. Al contrario, il nostro sogno è invece quello per cui le risorse umane
diventino il fine e non un mezzo per la produzione del reddito. Ecco allora che vedremmo l'uomo come vero e proprio capitale intellettuale
dell'impresa e della società: un capitale intellettuale che giustifica il profitto in quanto reiteratore della stessa felicità dell'individuo. In
altri termini: la produzione del reddito sarebbe etica in quanto il profitto diventerebbe la garanzia di continuità dinamica della felicità
dell'uomo.
La domanda che occorre porsi allora è questa: perché anche nel mondo del lavoro non è previsto un tutor che, con il suo servizio intellettuale, guidi
e indirizzi l'individuo verso un percorso di realizzazione professionale e umana, base della felicità nella vita? Sarebbe questa la condizione
sufficiente per sentirci amati nell'impresa e nella società come lo siamo nella famiglia e nella scuola? Tutto questo potrebbe essere un sogno
realizzabile se avessimo il coraggio di pensare che l'azienda è al servizio dell'uomo e non viceversa. Se il capufficio o il manager, invece del
budget, avessero come obiettivo di tutor la massimizzazione del capitale intellettuale dell'impresa, si attiverebbe un effetto a catena talmente
efficace da produrre maggior reddito come conseguenza dello stato di maggior felicità di tutti i collaboratori.
Ma quali sono gli strumenti adatti per raggiungere la felicità in un ambiente di lavoro? Innanzitutto il tutor dovrebbe instaurare con ciascun
collaboratore un percorso formativo, dunque evolutivo, assolutamente personale. Egli, in definitiva, dovrebbe aiutare a fare le scelte migliori
utilizzando l'azienda come se fosse a disposizione del collaboratore, e non viceversa. Se le imprese e le istituzioni realizzassero questa vera
rivoluzione copernicana succederebbe una cosa meravigliosa: i loro collaboratori si troverebbero ad interloquire con dei tutor e non con dei
competitor e diverrebbero efficientissimi perché non si sentirebbero sfruttati, non si sentirebbero un mezzo, ma i principali beneficiari del
capitale culturale dell'impresa. Per fare questo occorre molta fiducia nel bene e nel nostro prossimo, occorre anzitutto che i manager e gli
imprenditori sappiano rinunciare alla loro vecchia concezione del potere e diventare loro stessi tutor. Non ci sarebbe neanche bisogno di cambiare la
struttura organizzativa dell'impresa, basterebbe cambiarne le finalità con un nuovo spirito di gestione che anteponesse la felicità dell'uomo alla
fredda sequenza di numeri/profitti/denari. Così potremmo realizzare meglio i sogni della nostra vita, quelli nati tra le mura domestiche e sviluppati
sui banchi di scuola. Ci sarebbe sicuramente maggior felicità, più rispetto, più onestà intellettuale e più ricchezza. |
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